The devil all the time, recensione del film Netflix
The devil all the time è un titolo che condensa alla perfezione il senso dell’opera, più della scialba traduzione italiana Le strade del male.
Proprio di questo ci racconta la pellicola di Antonio Campos: il diavolo tutto il tempo. Produzione Netflix, The devil all the time è l’adattamento del romanzo omonimo del 2011 di Donald Ray Pollock. Fin dall’inizio della produzione ha attirato su di sé le attenzioni della critica cinematografica, principalmente per il cast scelto. Tom Holland, Robert Pattinson, Sebastian Stan, Bill Skarsgård, Mia Wasiwowska sono tra i protagonisti di questa drammatica e cruda storia dalla dimensione corale. Fede, religione, ipocrisia, vendetta, legami familiari e sangue si intrecciano in un’atmosfera di tensione, che aleggia lungo le strade polverose della stantia provincia americana.
The devil all the time, un western noir sporco di sangue
La storia di The devil all the time inizia nel 1945 e corre dall’Ohio alla Virginia, tra le contee rurali di Meade, Coal Creek e Knockemstiff. Al tramonto del conflitto mondiale, il soldato Willard Russell fa ritorno a casa, turbato da un trauma di guerra: la vista di un commilitone barbaramente crocifisso. Evento, questo, che insidierà inersorabilmente la psiche dell’uomo. Pur costruendosi una famiglia, con un figlio devoto e una moglie amorevole, Willard non riuscirà mai a dimenticare quanto visto, subendo un crollo e poi un riacutizzarsi della fede.
Ma la famiglia Willard non è la sola ad affrontare le conseguenze del male. La loro storia si intreccia a quella dei Brodecker e Laferty, in un arco di tempo lungo 20 anni. Tuttavia, nonostante la pellicola si apra sulla figura di Willard, sebbene si articoli in una dimensione corale, il personaggio che appare spiccare è quello di Arvin, figlio di Willard. In una spirale cieca di violenza, ipocrisia e fede malata, i personaggi si muovono su quella che sembra una strada già prestabilita da un Dio che non è buono né misericordioso, ma che brama vendetta per il peccato e castigo. Un Dio che, forse, è del tutto indifferente al destino dei suoi uomini che, privi di una guida, o persuasi dalla sua illusione, hanno smarrito la luce lungo il cammino. Tutto quel che riescono a fare è trovare una vigliacca giustificazione per il male perpetrato.
The devil all the time: il diavolo in provincia
The devil all the time è un’epopea del male. Il regista Antonio Campos si impegna a riprodurre sullo schermo le atmosfere della grande narrativa americana del dopoguerra, con echi faulkneriani e strascichi del tono arido e violento della scrittura di McCarthy. Quella raccontata è la storia della provincia americana tra gli anni Cinquanta e Sessanta. È la provincia selvaggia del Midwest, quella nascosta e che nasconde segreti, la più lontana dai riflettori. Quella delle country roads, protetta dalla Mountain mama, delle quali tuttavia non ha il sapore nostalgico dell’innocenza. C’è solo il gusto arrugginito e ferroso del sangue.
Di colori western si tinge quella che è la storia di formazione del giovane Arvin Russell, anche se la sua non è una formazione canonica. Le prove che è chiamato ad affrontare sono crudeli e intinte nella violenza, macchiate di sangue e di colpa. Il film rappresenta in chiave western quel mito letterario della vendetta e della colpa dei padri che ricade sui figli. Una colpa che spetta proprio a quel figlio espiare, in un circolo vizioso di brutalità fino all’epilogo, l’unico possibile: “Certe persone nascono solo per essere sepolte”.
The devill all the time e il paradosso della fede
La storia narrata da The devil all the time è quella di personaggi abietti, ipocriti, che nascondono la loro cattiveria nell’estasi ultra conservatrice della religione. Il richiamo di Dio diviene così pretesto per compiere azioni aberranti e la promessa del suo perdono una giustificazione alle nefandezze compiute. Nessuno dei tanti personaggi che costellano la pellicola sembra salvarsi e perfino le migliori intenzioni sprofondano nell’abisso della perdizione più cupa.
In un circolo vizioso di colpa, vendetta e meschina ipocrisia, il film smaschera i fraudolenti della vita. Esseri umani che ormai non hanno più nulla da offrire al mondo né tanto meno da perdere, che sembrano mossi dal più becero istinto animale. Nell’attimo stesso in cui nei loro occhi sembra balenare un barlume di compassione o di speranza, una forza invisibile e potente sembra ritrascinarli in un dedalo mostruoso. Non appare esserci alcuna uscita, se non quella, definitiva e senza consolazione, della morte. Perfino Arvin, l’unico personaggio che affronta un percorso di formazione, subisce deviazioni. È oppresso dal peso del bagaglio paterno, che lo induce, in metafora e in lettera, a schiacciare più volte il grilletto, con mano fredda e forse più giustificatrice che giustiziera.
La tragedia delle anime dannate
Tra tutti i personaggi, Arvin è quello più distante da Dio e dalla fede, un’imposizione che in tutta la vita ha cercato di rifuggire. Eppure, sembra essere l’unico che si inserisce attivamente in questo eterno conflitto tra destino e libero arbitrio. Da semplice pedone nella scacchiera che vede contrapposte giustizia e vendetta, Arvin crescendo si trasforma in torre. Impone il suo scacco matto alla crudele ingiustizia di una vita dominata dall’ipocrisia della religione. Pur ammantato di violenza, il giovane Russel spezza quel ciclo degli orrori nel quale era immerso dalla nascita, con l’aiuto del caso oppure per destino segnato, ma nella consapevolezza che è per lui arrivato il tempo di agire, mettendo a frutto quel solo seme di conoscenza lasciato in eredità dal padre: “Ci sono tanti figli di pu****a buoni a nulla là fuori. Devi solo aspettare il momento giusto”.
The devil all the time è una tragedia moderna dell’esistenza umana, della sua miseria e disperazione, affilate dal bigottismo e dalla violenza. I personaggi della pellicola ruotano intorno a motivi centrali nella storia dell’umanità, marionette in attesa di un guizzo vitale che renda loro spessore morale. Del resto, in quasi tutti i personaggi il senso della morale sembra sepolto sotto terra e sangue. Nessuno sembra riuscire a spiccare rispetto alla coralità. Lo stesso Arvin, che pure è motore e perno intorno cui si muove la narrazione, elemento risolutivo del ciclo di vendetta e morte, sembra emergere perché è l’unico che ne ha la possibilità, come sospinto da un deus ex machina.
Storie di miseria universale
Forse è questo un difetto da imputare all’opera di Campos: la dimensione corale del film impedisce ai personaggi di emergere, di raccontare una storia personale. Quasi come se le loro storie individuali fossero solo la summa di una storia universale, che potrebbe essere di chiunque. Come se nessuno di loro avesse passato o futuro e fosse fissato nel presente per sempre. Ciascuno potrebbe essere un giovane che cerca riscatto da una vita di disperazione o un uomo corrotto e mosso da egoismo, al di sopra di ogni legame familiare. Oppure ancora un morboso imbonitore di fede, non più in grado di discernere la sanità dalla follia o una orfana ingenua e manipolabile. Ciascuno potrebbe essere un vile ingannatore travestito da predicatore (menzione particolare alla intensa interpretazione di Robert Pattinson, per cui vale la pena vedere il film in lingua originale).
Tutti sono sporchi e viziosi. Nessuno vorrebbe mai essere come loro eppure sembra quasi di capirne i gesti, di potersi immedesimare in quel nero liquame gorgogliante. E questo inquieta terribilmente. Il peso ambiguo della religione si percepisce tutto, così come l’ambiguità degli stessi personaggi, che la usano e plasmano con riverenza oppure spregiudicatezza. Quasi come se la religione stessa fosse solo uno strumento al servizio del male.
The devil all the time e l’idolatria del pulp
Il lavoro di Campos in The devil all the time non è quello di un pastore che guida i propri fedeli verso un’illuminazione divina. Neppure la voce narrante onnisciente (dello stesso romanziere, tra l’altro) assolve questo compito. Il regista si propone semplicemente di narrare una storia, fatta di morte, violenza, crudeltà e vendetta. Non ha timore di indugiare nel macabro e le atmosfere inquiete, aiutate dalla colonna sonora, abbondano e contribuiscono a creare nello spettatore una sensazione di disturbo.
Un po’, prendendo in prestito la metafora di Stephen King, quella sensazione di disgusto che si prova verso qualcosa che si sa essere ripugnante, ma per il quale sentiamo comunque attrazione e dobbiamo fermarci a guardare. Un voyeurismo tetro che ci rende osservatori del dolore, consapevoli di quell’eccesso pulp sullo schermo, ma incapaci di distogliere lo sguardo, preda della tensione emotiva. Siamo tutti un po’ Willard, persi di fronte a quella croce, da cui ci aspettiamo un segno, la fine della sofferenza, ma di fronte alla quale sentiamo potente in faccia la sferzata della miseria.
The devil all the time è questo: un ritratto impietoso e crudo dell’America provinciale e ottusa del dopoguerra, specchio di una condizione umana meschina e gretta. Non ha pretese d’illuminare e insegnare, semplicemente racconta.
Francesca Belsito