Pieces of a woman – Recensione del film Netflix
Pieces of a woman è il primo film in lingua inglese del regista ungherese Kornél Mundruczó. Presentato in concorso alla 77ª Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è stato poi distribuito su Netflix a partire dal 7 gennaio 2021.
Forte del tema così attuale e allo stesso tempo universale di cui la pellicola si fa carico, molto ampio è stato il consenso ricevuto da parte della critica. Numerose sono infatti le candidature ai premi cinematografici più prestigiosi, tra cui una ai prossimi Oscar nella categoria Miglior Attrice Protagonista.
Ed è proprio l’attrice protagonista, la superba Vanessa Kirby, a mettere in atto in questo film un’interpretazione intensa e profondamente toccante. Interpretazione che le è già valsa a Venezia la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile.
Pieces of a woman è una storia di dolore
Pieces of a woman è la storia di un dolore. La storia intima e viscerale del dolore di una donna, del dolore struggente di una coppia, di tutta una famiglia. Del dolore di un parto che non fa in tempo a sfociare nella gioia della vita perchè avviluppato nelle spire della perdita.
Martha e Sean, la coppia di protagonisti, aspetta, tra incertezze e promesse di felicità , il primo figlio. Al momento del travaglio, la loro ostetrica non è disponibile per assistere al parto in casa e ne viene mandata un’altra. Nonostante il parto rischioso e il dolore della donna durante le contrazioni, la sostituta ostetrica non ritiene comunque necessaria la corsa in ospedale. Infine, la bambina viene al mondo e tutto sembra essere andato per il meglio. Così non sarà .
La storia è poi scandita, attraverso i mesi, dal susseguirsi delle stagioni, come tappe non programmate ma necessarie del dolore. L’aspetto legale della morte della bambina si intreccia a doppia maglia con l’aspetto puramente umano ed emozionale. Ogni persona nel cerchio familiare affronta la perdita a modo suo. La madre di Martha vorrebbe un funerale per assimilare il lutto e rendere l’addio. Sean è preso dalla battaglia con gli avvocati, per avere giustizia e una risposta. Martha, dal canto suo, decide di andare contro tutti. Il suo desiderio è quello di donare alla scienza il corpo della bambina. Silenziosa, quasi impassibile, solitaria si addentra nelle volute della sofferenza, mentre intorno tutto sembra disgregarsi: la relazione, la famiglia… Forse anche la vita di una persona che potrebbe perfino essere innocente.
Tra sguardi lenti e rumorosi silenzi
Prodotta da Martin Scorsese, la pellicola di Mundruczó ne rivela l’abilità e l’occhio attento. Notevole è il lavoro simbiotico tra lo sguardo e la mano del regista stesso e la potente sceneggiatura di Kata Wéber (sua compagna nella vita, che pare abbia preso ispirazione da un fatto autobiografico). Pieces of a woman si snoda a ritmo lento ma metodico, come la costruzione di un ponte, e non teme di indugiare sugli sguardi o nei momenti di silenzio. Quel silenzio che si fa così carico di attese, angoscia e disperazione da poterlo quasi sentir premere sulle orecchie.
Sin dall’avvio del dramma, la potenza espressiva è saggiamente manipolata dal regista che mette in scena il momento catartico del parto. Non solo il portato emotivo che un evento simile comporta, ma anche tutto il realismo, la crudezza, quasi l’animalesca istintualità dell’atto scivolano in un concitato piano sequenza di 24 minuti. L’uso fluido e sicuro della cinepresa trasporta noi spettatori all’interno della scena, senza mai metterci a disagio, ma permettendoci di trattenere il respiro a ogni scossa data dalle contrazioni, di lasciarci andare a un sorriso sghembo di fronte alla tenerezza di un uomo che sta per diventare padre, di abbandonarci a qualche incertezza di fronte all’esitazione dell’ostetrica.
Pieces of a woman è Vanessa Kirby
Una visione piena di maestoso dolore è quella che si svolge sotto i nostri occhi, complici le performance degli attori in scena. Tra tutti, Vanessa Kirby e Shia LaBoeuf. Il talento dell’attore è innegabile: cocainomane redento, Sean affronte il dolore a suo modo, tra ricadute e l’urgenza furiosa del contatto tra corpi che scade nella sua ricerca in un altrove. Non manca di pathos l’acuto ma vivido monologo della Elizabeth di Ellen Burstyn che racconta, tra dolcezza e amaro ricordo, la sua fortuna e la sua salvezza nell’essere sopravvissuta a un dolore tanto grande. Infine, cresciuta a teatro tra Shakespeare e ÄŒechov, è Vanessa Kirby a offrire un’interpretazione maestosa sotto il segno dell’intimità . Martha è una donna che è caduta in pezzi o forse nemmeno ne ha più la forza, è l’immagine di un corpo che, come un ponte, crolla implodendo su se stesso.
I pezzi di una donna e la ricostruzione del dolore
Cosa accade al corpo dopo un simile lutto? Cosa accade, invece, alla mente? Il dolore è un sentimento universale? La sofferenza di una madre che ha perduto un figlio è uguale alla sofferenza di tutte le altre madri? E quella di un padre? Quella di una nonna? Che valore hanno? Che peso possono avere? La pellicola non prova a rispondere a queste domande, bensì a raccontarle. Lo fa attraverso i dettagli, con gli sguardi e con lunghi silenzi, perchè spesso il dolore non ha bisogno di essere plateale.
Spesso il dolore è muto, composto, quasi si nasconde e questo non lo rende meno intenso o lacerante. Il dolore ha i suoi tempi e le sue sfumature, non è mai giusto nè sbagliato. Non va giudicato nè forzato. Non è uno spettacolo da osservare nell’attesa che sfumi o si dissolva. Il dolore è un lungo inverno, poi un autunno e poi altri ancora, da accogliere, in cui rifugiarsi per poi seminare nuovi frutti. E, nonostante i suoi echi, le sue cicatrici, tornare a raccogliere e mordere nuove, odorose mele.
Francesca Pandora Belsito